Che cos'è l'ICF
Disabilità visiva e comunicazione: problemi e risorse
Gli operatori che lavorano nell'area della disabilità avranno più volte sentito parlare dell'ICF e, forse, anche i genitori ed i familiari di persone diversamente abili potrebbero essere interessati a capire che cos'è questa sigla, a quale tipo di strumento fa riferimento e quale utilità riveste per gli operatori ed i professionisti del settore.
ICF sta per International Classification of Functioning, Disability and Health, ovvero Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. L'ICF è uno strumento elaborato nel 2002 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità con lo scopo di descrivere il “funzionamento” della persona, ovvero la sua condizione di salute, attraverso l'utilizzo di un linguaggio condiviso ed unificato. E' stato elaborato in sostituzione delle classificazioni precedenti (ICIDH ed ICIDH-2)[1] con l'obiettivo di spostare l'attenzione da un'ottica “negativa” centrata sul problema ad un'ottica più “neutra”, focalizzata sulle condizioni di salute in generale, “buone” o “cattive” che siano. Per questo motivo, l'ICF cessa di essere una classificazione delle menomazioni e dell'handicap – eliminando, di fatto, la parola “handicap” dal vocabolario tecnico, a causa della sua connotazione ormai stigmatizzante – per divenire uno strumento di descrizione dell'attività e della partecipazione sociale e, in ultima analisi, di qualsiasi condizione di salute.
L'ICF è pensato principalmente in riferimento a persone adulte, mentre per bambini ed adolescenti fino ai 20 anni è stata più recentemente introdotta la versione CY (for Children and Youngs).
Il modello ICF può servire per elaborare una diagnosi funzionale, da cui conseguono un profilo dinamico funzionale, un piano individualizzato e, in ultima analisi, un progetto di vita.
La diagnosi funzionale non è uguale alla diagnosi che siamo spesso abituati a vedere in ambito medico (per es, “Sindrome di Down”, “Tetraparesi spastica” o simili). Al contrario, può essere diversa per ogni persona, non si richiama a classificazioni standard, ma ha lo scopo di “descrivere il funzionamento reale e attuale di un soggetto nei suoi vari ambiti, compreso il ruolo del suo contesto, e di comprendere a fondo questo funzionamento, mettendo in relazione reciproca fattori biologici con fattori psicologici, sociali e di competenze” (Ianes, 2004). La diagnosi funzionale viene effettuata da diversi professionisti (ad es., psicologi, educatori, medici, ecc...) attraverso l'osservazione della persona, ma anche attraverso strumenti standardizzati quali i test. Si presenterà nella forma di un testo discorsivo, anziché di poche parole (talvolta una sola) come, invece, avviene per la diagnosi medica.
A partire dalla diagnosi funzionale, viene elaborato il Profilo Dinamico Funzionale, che consente di calarla nella realtà, ricavando, da questa, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine che si ritengono utili per quella persona, sulla base delle abilità possedute e delle richieste ambientali.
Il Piano Individualizzato è ancora più specifico e contiene al proprio interno le indicazioni circa le modalità concrete per realizzare gli obiettivi individuati nel profilo dinamico funzionale: le persone coinvolte, le risorse organizzative e strutturali da impiegarsi, i tempi, i luoghi, i materiali, le modalità di verifica. Se, per esempio, un obiettivo è quello di migliorare l'autonomia di spostamento all'interno della città di residenza, una modalità di attuazione prevista può essere quella di insegnare alla persona a prendere l'autobus per raggiungere i luoghi da lei più spesso frequentati (la scuola/il Centro Diurno, la casa di un parente/di un amico, il parco, lo studio del medico, il negozio della parrucchiera, ecc...). Per realizzare l'obiettivo verrà impiegato un educatore che affiancherà inizialmente il ragazzo per una settimana, riducendo gradualmente gli aiuti fino a raggiungere l'obiettivo ultimo nell'arco di un mese e consolidandolo poi nel mese successivo con esercizio quotidiano. La verifica prevista sarà costituita dall'osservazione diretta circa come si comporta la persona in autobus e circa l'effettivo raggiungimento del risultato atteso (arrivo nel luogo stabilito e discesa dall'autobus). Una volta acquisita l'abilità, il piano individualizzato prevederà una generalizzazione programmata, ovvero l'impiego dell'abilità “usare l'autobus” per raggiungere altri luoghi, oppure applicata ad un “numero di autobus” diverso (ad es, non più solo il 7, ma anche il 2).
Qualora le abilità di base della persona non le consentissero, al momento della valutazione, di riuscire ad usare i mezzi pubblici, l'obiettivo della maggiore autonomia di spostamento in città potrebbe concretizzarsi in modo diverso, per esempio, nel raggiungere a piedi la casa dell'amico dello stesso quartiere, o il negozietto di fiducia poco distante. Anche questo apprendimento potrebbe richiedere l'impiego di un educatore per tot mesi, con progressiva riduzione dell'aiuto e con specifiche modalità di verifica.
Il piano individualizzato, generalmente preparato dagli operatori del servizio che la persona frequenta – sia esso una scuola, un Centro Diurno o un Servizio di Formazione all'Autonomia – viene letto ed approvato (o eventualmente ridiscusso e modificato) in collaborazione con la famiglia della persona con disabilità.
Oltre il piano individualizzato sta il Progetto di Vita, proiettato nella dimensione della quotidianità della vita adulta, con i suoi aspetti di attività strutturate o lavorative vere e proprie, del tempo libero, della eventuale residenzialità al di fuori della famiglia...
Il modello ICF, con la sua complessità, ma anche schematicità, diviene dunque una importante linea guida per la diagnosi funzionale e per le tappe successive, fino al Progetto di Vita. La sua importanza risiede, inoltre, nel fatto di essere uno strumento conosciuto ed utilizzato in tutta Europa.
F. Boveri
[1] ICIDH sta per International Classification of Impairment, Disability and Handicap, ovvero Classificazione Internazionale della Menomazione, della Disabilità e dell'Handicap. Le versioni precedenti all'ICF – l'ICIDH del 1980 e l'ICIDH-2 del 2000 – erano centrate prevalentemente sugli aspetti “negativi” della menomazione, disabilità e svantaggio sociale.
Disabilità visiva e comunicazione: problemi e risorse
La capacità di comunicare in maniera efficace costituisce una risorsa personale che porta con sé numerosi vantaggi. Ad esempio, può aiutarci a raggiungere gli scopi che ci prefiggiamo di volta in volta nella nostra vita quotidiana migliorando la nostra autoefficacia e la nostra autostima, ci offre la possibilità di confrontarci costruttivamente con gli altri aumentando le probabilità di trovare soluzione ai problemi che incontriamo, aumenta la nostra soddisfazione personale per essere riusciti ad esprimere i nostri bisogni o per aver fatto rispettare i nostri diritti, favorisce la collaborazione con gli altri (compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc...), contribuisce alla costruzione ed al mantenimento di un clima sociale sereno e positivo. Non solo, il saper comunicare “bene” ci dà la possibilità di condividere i momenti gioiosi, valorizzandoli, ma anche i momenti di tristezza, sconforto, rabbia o paura, ottenendo ascolto, comprensione ed aiuto.
L'abilità di comunicare in modo efficace non è qualcosa di innato, una sorta di “dono di natura” che si ha o non si ha; piuttosto è una capacità appresa, che si costruisce nel corso dello sviluppo individuale e che, pertanto, può essere facilitata od ostacolata nel proprio evolversi.
La disabilità visiva può costituire, in questo senso, una caratteristica personale che porta con sé alcuni ostacoli allo sviluppo di abilità comunicative soddisfacenti. In che modo?
Le persone con disabilità visiva dalla nascita (non vedenti o ipovedenti) hanno difficoltà più o meno marcate nel distinguere le espressioni facciali altrui. Di conseguenza rischiano di sviluppare esse stesse un'espressività del viso meno significativa[1]. Sempre in conseguenza della “debolezza” o della totale inefficacia del canale visivo, possono sviluppare un'attenzione eccessiva al tono ed al volume di voce altrui oppure possono avere un contatto oculare sfuggente. Anche la gestualità che accompagna la comunicazione verbale può essere poco sviluppata, sempre a causa della difficoltà (o impossibilità) a vedere gli altri che la utilizzano, cosa che ne ostacola l'apprendimento per imitazione.
Molti degli aspetti non verbali della comunicazione, dunque, possono sfuggire ad un adeguato apprendimento, portando, di conseguenza, ad un'espressività comunicativa ridotta.
Il linguaggio verbale, al contrario, può risultare fluente e ricco, ma – attenzione! – non sempre appare ancorato ai significati concreti.[2]
Una difficoltà non meno importante è di carattere più specificatamente psicologico e riguarda la tendenza a negare le difficoltà causate dal problema visivo. Questo crea ostacoli nel chiedere aiuto e può costituire anche fonte di equivoci “antipatici” che, se ripetuti nel tempo, possono portare alla lunga a conseguenze negative (ad es., la diffidenza nei confronti del prossimo senza disabilità visiva).
Un signore ipovedente raccontava, in proposito, come una volta, si trovasse in stazione ed avesse necessità di leggere l'orario ed il binario del treno sul tabellone. Chiedendo ad un passante di leggergli l'orario, si è sentito rispondere: “Se lo legga da solo!”. Questa risposta un po' rude era in parte dovuta al fatto che non aveva detto di essere ipovedente (dato che per lui era difficile ammetterlo) e, non utilizzando il bastone per muoversi, il passante non aveva capito che aveva un problema di vista e si era sentito preso in giro!
Coloro che presentano una disabilità visiva acquisita, invece, possono sentirsi in difficoltà nel chiedere aiuto anche perché spesso non è facile accettare la nuova condizione, associata di frequente a senso di frustrazione, chiusura comunicativa, e – anche in questo caso – tendenza a negare il problema.
Conseguenza di tutti questi aspetti, sia per chi soffre di una disabilità visiva congenita che acquisita, può essere una difficoltà comunicativa che può portare, a sua volta, ad equivoci, mancata espressione dei propri bisogni, frustrazione rispetto al raggiungimento dei propri obiettivi e, in generale, ad un clima poco sereno e di bassa qualità.
La conoscenza di queste problematiche, a mio parere, ha un'utilità sia per gli operatori del settore che per le famiglie, almeno per un duplice motivo:
da una parte è possibile pensare, per i bambini con disabilità visiva congenita, a training specifici volti a potenziare le abilità comunicative – verbali e non verbali – fin dall'infanzia, utilizzando i canali sensoriali integri (non ultimo il tatto) e, nel caso degli ipovedenti, anche il canale visivo residuo;
dall'altra è importante far passare il messaggio che il problema visivo non è qualcosa di cui vergognarsi o che deve essere nascosto. Al contrario, la consapevolezza dei nostri limiti è ciò che ci consente di superarli trovando soluzioni alternative a quelle “consuete”, ma non per questo necessariamente meno funzionali. Là dove non arriva la vista, potranno arrivare gli altri sensi e là dove non arrivano neanche quelli si potrà giocare la carta del chiedere aiuto all'esterno. Anche chiedere aiuto è un modo di risolvere i problemi e l'abilità di chiedere aiuto è un'abilità sociale come tante altre, che non riduce l'autonomia personale poiché, al contrario, aumenta il nostro raggio d'azione.
Non ultime, le stesse persone con disabilità visiva, leggendo questo articolo (attraverso gli aiuti che riterranno più opportuni) potranno forse capire che gli eventuali problemi di comunicazione che incontrano nella vita di tutti i giorni sono condivisi da molte altre persone con problemi di vista e che possono essere in parte o in tutto superati sia attraverso training di comunicazione specifici sia riconoscendosi il diritto di comunicare le loro richieste d'aiuto quando è necessario.
F. Boveri
[1] Le espressioni facciali sono innate, pur tuttavia l'espressività del viso viene migliorata e “affinata” in maniera appresa, ovvero principalmente attraverso l'osservazione delle espressioni del viso delle altre persone. Una persona con problemi visivi avrà conseguentemente difficoltà nell'affinare la mimica facciale, dato che non può contare sulla modalità di apprendimento visiva.
[2] Ad esempio, non è facile per una persona non vedente o ipovedente capire effettivamente cos'è una grondaia, dato che non riesce a vederla e, nello stesso tempo, non può toccarla. Pur tuttavia è possibile che utilizzi questo termine nel discorso. Se vi sia associata una comprensione concreta del significato è, però, da vedere. Questo fenomeno viene spesso definito col termine di verbalismo.